«Se la Svizzera fa un passo indietro, anche la sua influenza diminuirà»

24. Ott 2024 | contributo esterno, instituzioni

Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) è un partner di cooperazione efficace e benaccetto in tutto il mondo, afferma il direttore Achim Steiner, che tuttavia si dice preoccupato per il calo del sostegno da parte di Paesi come la Svizzera. Intervista di Laura Ebneter, Marco Fähndrich e Andreas Missbach, Alliance Sud

«global»: Signor Steiner, lei è cresciuto in Brasile con genitori tedeschi. Che influenza ha avuto questa bi-nazionalità sul suo percorso?

L’esperienza di crescere in Paesi e culture diverse è estremamente liberatoria. Grazie a essa ho trovato il modo di potermi sentire a casa e lavorare ovunque nel mondo. Inoltre, ho imparato a vedere il mondo da diverse prospettive. Gran parte dei problemi odierni sono legati al fatto che non ci capiamo appieno tra di noi. Eppure quando visito uno Stato insulare del Pacifico o un Paese dei Caraibi, mi è subito chiaro quanto la vita lì dipenda dalla politica climatica del resto del mondo.

Prima di lavorare per l’UNDP, lei è stato direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP). In che modo si intersecano queste istituzioni?

L’UNEP fa da ponte tra scienza e politica e definisce le norme internazionali. Con il Protocollo di Montréal, l’UNEP ha realizzato uno dei più importanti successi della politica ambientale internazionale, al fine di riparare lo strato di ozono. L’UNDP si concentra su altri aspetti e assiste oltre 170 Paesi sostenendo il loro percorso di sviluppo, sia dal punto di vista sociale, sia economico e di politica ambientale. Mi occupo di questioni ambientali da molto tempo e con la nomina a capo dell’UNDP si è chiuso un cerchio: unire ambiente e sviluppo, perché la più grande sfida dei nostri tempi è risolvere in che modo otto miliardi di persone possano vivere insieme all’insegna della sostenibilità e della pace.

Nel suo “Rapporto sullo sviluppo umano 2024”, l’UNDP afferma che l’ineguaglianza dei progressi nello sviluppo sta lasciando indietro i più poveri del mondo, andando in direzione opposta rispetto all’obiettivo dell’Agenda 2030 di «non lasciare indietro nessuno». Dove vede le maggiori opportunità per evitare che il divario si allarghi ulteriormente?

Sullo sfondo della pandemia, delle numerose crisi e dei conflitti, il bilancio a prima vista è sconfortante. Con l’Agenda 2030 ci siamo posti obiettivi ambiziosi, ma spesso i piani non vanno come previsto. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che negli ultimi decenni sono stati compiuti anche enormi progressi, anche se purtroppo non sempre giungono all’opinione pubblica. Nel 1995 avevano accesso a internet dieci milioni di persone, oggi sono quasi sei miliardi. Anche l’accesso alla rete elettrica è migliorato notevolmente. La cooperazione internazionale ha giocato un ruolo significativo in questo senso…

… eppure si tratta di una magra consolazione di fronte alle molteplici crisi mondiali.

Anche questo è vero. Ci troviamo di fronte alla situazione in cui i Paesi più poveri non sono più in grado di ripagare i loro debiti, come è il caso dello Sri Lanka. Sono quasi 50 i Paesi che nel loro bilancio statale registrano una spesa maggiore al 10% solo per il servizio del debito. Per questo motivo assistiamo a tagli all’istruzione e alla sanità pur di pagare gli interessi. Ciò naturalmente non può favorire lo sviluppo. E quando uno Stato non riesce più a rifornire la popolazione di alimentari e carburante, la gente scende in strada.

Proprio ora sarebbero necessari maggiori investimenti, eppure i Paesi donatori stanno riducendo i fondi…

I Paesi ricchi dell’OCSE spendono solo lo 0,37% del reddito nazionale lordo per la cooperazione internazionale. Alla luce degli enormi compiti e delle opportunità dei nostri tempi, mi preoccupa molto il fatto che non si trovino le risorse necessarie per poter svolgere il nostro lavoro, soprattutto presso i Paesi donatori tradizionali. E ciò nonostante il fatto che abbiamo dimostrato quanto di più possiamo ottenere insieme.

Qual è il suo appello alla politica?

Chi siede in Parlamento deve avviare una discussione onesta sulla cooperazione internazionale e riconoscere che gli interessi nazionali vanno sempre più considerati nell’ambito di un contesto globale. I governi agiscono con opportunismo politico e rinunciare a soluzioni comuni è tutt’altro che lungimirante: in ultima analisi, è irresponsabile. Prendiamo il cambiamento climatico: non si tratta più di stabilire se esista o meno, ma di capire come possiamo intervenire in ogni Paese. È un vero fallimento che non si riescano a rendere più chiare queste correlazioni, che in molti Stati si continui a fare affidamento sui combustibili fossili invece di promuovere le energie rinnovabili. Eppure, sappiamo che ormai ogni anno migliaia di persone in Svizzera, Germania e altre nazioni europee muoiono prematuramente a causa delle temperature elevate.

Nel contesto internazionale ci si è accorti che anche la Svizzera sta riducendo il suo impegno?

Fino a cinque anni fa, la Svizzera era un modello sul piano della cooperazione internazionale: ha saputo riconoscere l’importanza del multilateralismo, a maggior ragione per un Paese così piccolo. Purtroppo la Svizzera ha continuato a ridurre gradualmente i suoi contributi all’UNDP, pur rimanendo un importante Paese donatore. Senza le Nazioni Unite, il margine di manovra dei Paesi più piccoli nelle aree di crisi tende a zero. La Svizzera ha svolto un ruolo strategico da quando è entrata a far parte dell’ONU. Se fa un passo indietro, anche la sua reputazione e la sua influenza diminuiranno.

Che ruolo gioca la crescente polarizzazione nel mondo?

La polarizzazione ostacola la cooperazione internazionale e conduce a un vicolo cieco. La mia più grande preoccupazione è che il mondo si stia sempre più isolando invece di cooperare. L’anno scorso sono stati spesi 2443 miliardi di dollari per la difesa e le forze armate. Non è solo un record storico, ma anche segno del confronto in aumento. A farne da esempio concreto, la guerra in Ucraina e i conflitti in Myanmar o in Sudan. Ma i problemi globali si possono risolvere solo se i vari Paesi trovano un approccio comune nonostante i loro diversi interessi, che si tratti di prevenire la prossima pandemia, di cybersicurezza o del cambiamento climatico.

Che impatto ha la guerra in Ucraina sul lavoro dell’UNDP?

A differenza degli organi politici dell’ONU, come ad esempio il Consiglio di sicurezza, abbiamo il vantaggio di essere benaccetti come partner in tutti i Paesi del mondo. È sorprendente la fiducia con cui veniamo accolti nei Paesi partner, soprattutto perché non siamo visti come un’organizzazione che viene e poi se ne va subito. Sosteniamo certi Paesi da decenni e queste collaborazioni dimostrano che la cooperazione internazionale non deve necessariamente essere politicizzata, bensì è offerta per sostenere il percorso di sviluppo di un Paese. Lo sto osservando proprio ora con il Bangladesh, dove abbiamo cooperato con diversi governi nel corso degli anni. Anche nell’attuale situazione di crisi con il governo di transizione di Muhammad Yunus, la cooperazione con l’UNDP non è stata messa in discussione. La promessa dell’ONU secondo la quale i Paesi possono contare sull’UNDP per attuare le idee di cooperazione internazionale in maniera molto concreta rimane un elemento positivo.

Eppure anche l’UNDP è alle prese con preoccupazioni di ordine finanziario.

La ricerca di fonti di finanziamento fallirà sempre se di base non abbiamo fiducia nelle istituzioni internazionali. Purtroppo, l’ONU si trova spesso a dover gestire le critiche da parte di più nazioni, ad esempio per quanto riguarda Gaza. Ci preoccupa il fatto che molti Paesi si stiano bilateralizzando sulla base di argomentazioni dubbie, abbandonando le vie multilaterali. Il Regno Unito, ad esempio, ha ridotto drasticamente i fondi per essere in grado di finanziare i costi dell’asilo all’interno dei suoi confini. Questo ci ha creato delle difficoltà perché un’organizzazione come l’UNDP ha bisogno di un solido finanziamento di base per poter essere trasparente, efficace e in grado di rispondere delle proprie azioni. Nel 1990, il 50% delle risorse era costituito da fondi non impegnati e liberamente disponibili; oggi invece la quota corrisponde solo all’11%. Sono proporzioni che un’organizzazione non può mantenere a lungo termine. Così perdiamo una delle piattaforme più importanti in assoluto, una piattaforma che riesce a consentire la cooperazione anche in un mondo teso.

Perché la CI ha perso credibilità negli ultimi anni?

La CI non è un esperimento, ma un tentativo di trovare soluzioni, spesso nelle circostanze più difficili. Il 50% del lavoro viene svolto in aree di crisi: Yemen, Afghanistan e Myanmar sono tutte regioni ad alto rischio in cui stiamo cercando di salvare vite umane. Il fatto che le cose non vadano sempre come pianificato o addirittura che vadano storte è semplicemente realtà. Purtroppo, la disponibilità dei donatori ad accettare battute d’arresto è esigua.

Secondo lei, per quale motivo la cooperazione allo sviluppo deve confrontarsi ripetutamente con affermazioni false e aspettative troppo elevate?

Purtroppo è in atto un’offensiva concertata contro la CI, dagli Stati Uniti alla Scandinavia e ai Paesi di lingua tedesca. Si tratta di una campagna politica che tenta di delegittimare la cooperazione internazionale in contesti nazionali, come nel caso delle piste ciclabili in Perù sostenute dalla Germania, di cui hanno parlato molti media. Questi esempi creano confusione, ma è anche nostra responsabilità comunicare meglio e più chiaramente cosa facciamo con il nostro lavoro.

Ci lascia un messaggio positivo per concludere?

Mediante il Programma alimentare mondiale (PAM), le Nazioni Unite forniscono ogni anno aiuti alimentari a circa 115 milioni di persone. Ciò è possibile solo grazie al coraggio, alla solidarietà internazionale e all’impegno del nostro personale e dei nostri partner sul campo.

 

Crediti immagine: L’ascolto come missione umanitaria: Achim Steiner (secondo da sinistra) in visita all’Ucraina devastata dalla guerra. © UNDP

UNDP: Impegno per lo sviluppo sostenibile

L’UNDP è stato fondato nel 1965 ed opera in oltre 170 Paesi e territori. Il mandato principale è quello di contribuire al raggiungimento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS o Sustainable Development Goals, SDG). L’UNDP sostiene i Paesi partner in tre aree chiave del cambiamento: trasformazione strutturale, non lasciare indietro nessuno e costruire resilienza. Con uscite per un ammontare di 5 miliardi di dollari, l’UNDP è il maggiore programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Lo scorso anno la Svizzera ha messo a disposizione dell’UNDP 89 milioni di dollari.

Portrait Achim Steiner
Achim Steiner

Achim Steiner, nato nel 1961, è cresciuto in Brasile e in Germania e ha studiato filosofia, politica ed economia all’Università di Oxford. Si è laureato all’Università di Londra con un master in Economia e pianificazione regionale. Ha conseguito inoltre dei periodi di studio presso l’Istituto tedesco per la politica di sviluppo (DIE) di Berlino e la Harvard Business School.

Achim Steiner è stato direttore dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) e ha lavorato per la Società tedesca per la cooperazione internazionale (GIZ). Tra il 2006 e il 2016 ha diretto il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) a Nairobi e la sede locale (UNON). Da maggio 2017, Achim Steiner ricopre il ruolo di capo del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) a New York. Nel 2021 è stato confermato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per un secondo mandato quadriennale al vertice dell’UNDP.

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